Monday, January 30, 2006

LAVORARE CON ENTUSIASMO

PARTE PRIMA

Abbiamo parlato di comunicazione, di lavoro, di ottimismo e pessimismo.
Proviamo allora a parlare di tutti questi elementi insieme, in sinergia tra loro.
L’argomento è attuale e di ampia portata (ed è per questo che ho scelto di suddividerlo in più parti; bibliografia e links saranno al termine), oltre a riguardare ciascuno di noi. Quello che segue è frutto della mia esperienza lavorativa milanese in una società di formazione manageriale il cui core business consiste nel creare le migliori condizioni di lavoro aziendali allo scopo, ovviamente, di implementarne la produttività. È evidente che un’azienda i cui dipendenti lavorano con entusiasmo (o anche semplicemente con uno dei suoi surrogati), e quindi più efficacemente, produce di più e guadagna di più. Pertanto, la soddisfazione sul lavoro dei dipendenti dovrebbe in primo luogo interessare il management e/o la proprietà.

L’entusiasmo al lavoro è sicuramente un punto di partenza cui ciascuno di noi aspira. Esso è parente stretto della motivazione che altro non è se non voglia di protagonismo: solo se ci si sente protagonisti si riuscirà a fare proprie le esigenze organizzative al punto da appassionarsi ad esse e alimentarle con il proprio impegno e la profusione delle proprie capacità, al punto da considerare il lavoro come un’espressione di sé e non come un mero obbligo di guadagno.

Con l’avvento di modalità produttive industriali e meccanicistiche, la maggior parte degli individui ha cessato di vivere l’esperienza lavorativa come un campo per la realizzazione di sé, di scoperta del proprio valore e di conquista di un ruolo sociale. Il concetto di motivazione al lavoro diviene allora per le aziende una fondamentale domanda su come sia possibile motivare, convincere, spingere gli individui ad operare in condizioni nelle quali spontaneamente non sarebbero portati a farlo.
Per rispondere occorre partire da un’idea di fondo: una tendenza, un movimento si diffonde come un’epidemia e i comportamenti conseguenti si propagano come un virus. I comportamenti sono infatti contagiosi, nel senso che le persone tendono a riprodurre una data azione cui hanno assistito; basti pensare alle consuetudini sul luogo di lavoro, come ad esempio l’abbigliamento o il modo di rispondere al telefono o l’uso di soprannomi per colleghi e superiori. Figuriamoci allora quale effetto positivo potrà produrre all’interno di un ufficio l’inserimento di un giovane neo assunto carico di entusiasmo per il nuovo lavoro: il suo buon umore ci contagerà. O quale riscontro possa avere la decisione di ammodernare gli uffici, o di distribuire un inatteso premio produzione, o di lanciare una campagna pubblicitaria cui i dipendenti siano chiamati a partecipare, o di organizzare per i dipendenti corsi di formazione (sintomo di interesse per le persone e di desiderio di investire sulla loro crescita professionale). O anche, semplicemente, il coinvolgimento da parte dei superiori nei piani aziendali o il riconoscimento per un lavoro ben fatto. Immaginiamo, al contrario, quale effetto possa produrre sul morale della “ciurma” un collega perennemente scontento delle sue mansioni, che parla male del capo e dell’azienda. Nel giro di poco, anche noi assumeremo un atteggiamento di negatività e scarso coinvolgimento. Questi cambiamenti, anche quando appaiono di scarsa importanza, possono avere conseguenze di grande portata. E il cambiamento avviene in fretta, non in modo lento e costante.

Il cambiamento – inteso come scelta strategica - è al centro del concetto di evoluzione di una realtà, qualunque essa sia, e quindi anche delle realtà aziendali. Esso, se promosso con coerenza e imparzialità dal management, sarà sempre avvertito dai dipendenti come qualcosa di positivo, perché implica il desiderio dell’azienda di crescere e svilupparsi. Un esempio di cambiamento può essere l’aggiornamento della vision dell’organizzazione. Essa regola il comportamento, ispira la direzione e catalizza l’operato dei dipendenti: deve essere personale, positiva, emotiva e più grande di noi. Solo così potrà arrivare ad influire i comportamenti facendo sì che le persone ne condividano l’essenza e si comportino di conseguenza. Condividere il sogno di un’azienda (cosa fa e perché lo fa, quali strumenti usa per farlo e quali ripercussioni ha sul tessuto sociale) ha conseguenze sia sul piano emotivo che sul piano pratico: permette alle persone di sentirsi parte di qualcosa di più grande della propria scrivania, di essere soddisfatte per l’appartenenza ad un progetto; inoltre, partecipando al processo di creazione di ricchezza, la condivisione del sogno aziendale dà la possibilità di perseguire anche i propri sogni individuali. Quanto è più sincera la fede nella vision e più coerenti sono le comunicazioni e il comportamento che la riguardano, tanto più grande sarà la forza in grado di opporsi a chiunque, all’interno dell’organizzazione, voglia opporvisi.
Segue…

6 Comments:

At 31/1/06 8:50 pm, Blogger StarPitti said...

Ieri sera ho letto il post del Buridone appena tornato dall'ufficio, proprio mentre lei era on-line e stava finendo di commentare altri post, diligente come sempre, mantendendo quel feeling-epistolare che ha instaurato con la nostra ospite Giuggio. (poi aprirò una parentesi anche sulla ns.nuova amica - OT).
Mi sono sentito ritratto, o meglio risucchiato vorticosamente dalla situazione che ci descrive Ila, ovviamente quella più negativa: assenza di stimoli, la latitanza dell'entusiasmo.
Mi sono confrontato con lei tramite gtalk e, alle mie lamentele, di rimando mi ha subito risposto che deve ancora conoscere qualcuno che non la pensi così e che non si lamenti degli aspetti negativi del proprio lavoro.

Ho raccontato brevemente la mia giornata lavorativa, ho sputato veleno su quello che da tempo vivo, e tutto il mio essere irriverente ed arrogante è venuto fuori; Ila mi ha subito chiesto "BRUTTA GIORNATA VERO?".

Si brutta giornata, che si ripete spesso, causata dalla disorganizzazione, dalla fatica, dal carico lavorativo e dal basso rendimento che ne consegue. Più ti affani e più sprofondi in quel meccanismo che si innesca nella maggior parte della aziende italiane che caricano di respondabilità senza ricambiare. E non mi fermo solo al mero aspetto economico, basterebbe ben poco, una dimostrazione di stima quando serve, un consiglio nel momento del bisogno, sostituire la diffidenza alla fiducia, trasformare l'arrivismo ad un più sano sentimento di orgoglio personale per i risultati ottenuti.

Ma come si fa per ottenere tutto ciò? A volte è come lottare contro i mulini a vento, e l'unico pensiero che ti viene è quello di cercare un altro impiego sperando in qualcosa di più. Ma si passa dalla padella nella brace....

Attendo con ansia la seconda parte.

 
At 31/1/06 9:36 pm, Blogger StarPitti said...

Condividere il sogno di un’azienda (cosa fa e perché lo fa, quali strumenti usa per farlo e quali ripercussioni ha sul tessuto sociale) ha conseguenze sia sul piano emotivo che sul piano pratico: permette alle persone di sentirsi parte di qualcosa di più grande della propria scrivania, di essere soddisfatte per l’appartenenza ad un progetto.

Mi lascia un pò dubbioso questo pensiero, mi sembra che si rincorra come il discorso dell'uovo e della gallina. Mi trovo dietro una barricata, quindi non posso essere del tutto obbiettivo, non mi viene naturale perseguire il sogno di un'azienda, almeno per quello che è la vision della mia di azienda.

Ci deve essere un inizio, altrimenti si rischia il loop sul solito discorso dell'uovo e della gallina...ecco perchè prima ho scritto che aspetto la seconda parte...

ps:per Metiu che legge sornione. Non aspetto altro.....vai pure.

 
At 31/1/06 10:52 pm, Blogger Union-Jack said...

buona sera, vorrei coprire tanti aspetti ma vado a ruota libera.

il 99% delle persone va a lavorare per i soldi. non ci credete? forse sono io che la vedo solo dal lato pratico ma viviamo nell'epoca dei consumi dove tutto costa (grazie euro !) e quindi se non si guadagna non si vive.

entusiasmo sul lavoro: esiste una sottile linea rossa: la classe dirigenziale e il resto del mondo. ai primi non interessa affatto la salute mentale dei secondi altrimenti anziche' delle imprese ci ritroveremmo con delle organizzazioni NO PROFIT che vorrebbe poi dire niente utili.

il mio capo, che puo' essere uno stronzo disumano e credetemi al 99% delle volte lo è, non dice mai: che bravo che sei venuto a lavorare nel fine settimana....pero' se per 2-3 volte consecutive non vai....ti dice o meglio "ti fa capire" che sarebbe meglio che tu considerassi il tuo progetto con maggiore serieta' soprattutto per quanto riguarda la TUA/SUA carriera. morale della favola.....quando le cose vanno, nessuno ti dice bravo MA quando non vanno ti vengono a puntare il dito contro....nulla di nuovo sotto il sole.

e ragazzi ve lo dice uno che fa, per scelta sua badate bene, un lavoro che per la quantita' di ore e/o energie spese non viene ripagato equamente....e non parlo solo del profilo economico.

Faber est quisque fortunae suae

 
At 1/2/06 10:01 am, Blogger Babba said...

MA come stavo bene all'università mantenuto e senza fare nella. Non che ora io mi mantenga da solo...ma devo fare finta di lavorare. A proposito, sull'ambiente di lavoro io non ho da che lamentarmi, begli uffici, rapporti informali, un capo disponibile e capace di spiegare...unica pecca che lavorando nel controllo di gestione facciamo da pettine per le magagne, e quindi anche come tipo di lavoro sei costretto a chiedere a destra e sinistra dati ed informazioni. Ogni volta che telefoni è per chiedere un report, i dati di questo di quello...io sono stato soprannominato amichevolmente incubo!! Fate voi!!
Ciao a tutti

 
At 2/2/06 6:40 pm, Blogger Buridone said...

Posterò veloce come la luce la seconda parte, e da lì a poco la terza. Più per dovere di cronaca e completezza di esposizione che per speranza di fornire una chiave di lettura. So perfettamente che il post è prettamente teorico, nel senso che cerca di sviluppare i concetti più moderni nel campo della gestione delle risorse umane. So anche perfettamente che la realtà si discosta profondamente da come la si vorrebbe. Non per niente io non lavoro più in quella società milanese. E non è solo per motivi coniugali. Quello che ho cercato e cercherò di fare è fornire una chiave di lettura differente, che si scosti dai soliti luoghi comuni del capo-padrone / dipendente-schiavo. non solo non è sempre così, e lo dimostra il Babba con il suo commento, ma si può fare in modo che un circolo vizioso negativo prenda una piega differente. E' senz'altro vero che il grosso problema sta nell'atteggiamento ostativo e impositivo dei manager, ma è anche vero che moltissimo dipende dal nostro comportamento (nostro di dipendenti). Laddove certi risultati non siano raggiungibili attraverso una comunicazione lineare e basica (quella cui tutti noi siamo abituati sul luogo di lavoro), si dovranno cercare altri sistemi, altre vie. E' inutile aspettarci miracoli dove non c'è neppure la fede, per usare una metafora. Cambiare sistema, cambiare metodo, Cambiare registro. Dire le cose in modo differente, provare a cambiare comportamento a seconda delle persone con cui interagiamo. Non essere monolitici.
La giornata di Starpitti, punta di un iceberg ben più profondo, è esemplificativa senz'altro di una non corretta gestione delle risorse, ma ancor di più, a mio giudizio, di un suo stato d'animo relativo all'ambiente che si sta incancrenendo. Se lo stesso episodio fosse successo in tempi non sospetti, la reazione sarebbe stata meno forte. In questi casi, appunto, le strade sono solo due: o cercare altrove, alla svelta; o affrontare i problemi con uno spirito nuovo, eventualmente anche parlando con i responsabili, per invertire la tendenza. non parlo a vanvera, ma per esperienza personale. Se all'epoca milanese non mi fossi fatta travolgere dal pessimismo di certi soggetti e avessi cercato una lettura diversa dei fatti che vivevo, non me ne sarei andata così amareggiata. E il mio era un problema di carattere personale, cioè di cose non dette e ragioni non spiegate (da altri, io ho sempre spinto come un mulo verso la schiettezza), non lavorativo.Credo che tutto, o molto, dipenda da quanto il lavoro in sè piaccia. Se piace, se cioè - per rispondere a Pitti - la nostra vision collima con quella aziendale, si deve essere disposti a rimettersi in gioco, a forzare la propria naturale inclinazione. Non è sempre vero che noi siamo nel giusto e gli altri nel torto.

p.s. la storia che la gente non lavora solo per i soldi non è una storia. un numero illimitato di questionari aziendali lo confermano. è ovvio che si parte dal presupposto che lo stipendio non sia da fame, e di questi tempi non è scontato.

 
At 2/2/06 6:51 pm, Blogger Buridone said...

Ah: per quanto riguarda la vision è senz'altro vero che è più facile appassionarsi, che so, a quella di un istituto che fa ricerche contro il cancro o a quella di un'associazione che segue bambini disabili o a quella di una società che cerca di sviluppare la comunicazione all'interno delle aziende che non alla vision di un'azienda di trasporti o che produce macchine per l'escavazione. Ma è anche vero che ogni realtà organizzativa, nelle intenzioni, cerca di migliorare o semplificare o risolvere problemi e dare risposte. Ogni realtà che produce (e quindi crea profitto, non c'è niente di male in ciò)ha in sè qualcosa di positivo. Se non altro perchè fornisce lavoro ai suoi dipendenti.

 

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