Friday, February 17, 2006

CHE FINE FA LA DEMOCRAZIA IN CAMPAGNA ELETTORALE?


In questo clima di guerra elettorale, combattuta a suon di sondaggi, ora anche esterofili, e di offese all’avversario, opachi programmi politici e spot inconsistenti e cartelloni di grandezza ciclopica, credo sia opportuna una riflessione che aiuti, non tanto a scegliere lo schieramento (non è questo il luogo e non è questo l’obiettivo), quanto piuttosto a riflettere seriamente su quello che ci viene presentato, e sul come.
Mi affido per questo compito alle parole di Gustavo Zagrebelsky, esimio costituzionalista con la dote della chiarezza, pubblicando di seguito una sintesi (non cambio una parola, l’ho soltanto accorciato per motivi di fruibilità) del suo articolo “Telepolitica – il peccato capitale della democrazia” uscito sul numero odierno di La Repubblica. A prescindere dalla testata che lo ospita, l’articolo ha il grande pregio dell’immediatezza e della neutralità. La pesante critica al sistema di cui siamo prigionieri più o meno consapevoli e volontari coinvolge entrambi gli schieramenti. Purtroppo.

In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una “concezione mercantile” della democrazia, in contrasto con la dottrina classica che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Le singole persone, sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate piuttosto su beni particolari, sulle cose che le riguardano da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini? Occorre realismo. La democrazia degli uomini comuni, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Non è il popolo, ma sono i governanti a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle elites del potere. La volontà popolare non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le lezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere i propri orientamenti e bisogni, ma si illude. I bisogni i gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a discapito degli altri.
L’uomo politico tratta i voti come l’uomo d’affari tratta il petrolio. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi in un caso propaganda, nell’altro pubblicità. Stabilita l’equazione propaganda-pubblicità, si capisce quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta. L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. L’elettore ingannato non si accorge, o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Denunciare questo fatto significa sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore A offre beni B al consumatore, in cambio dei denaro C. Nel mercato elettorale, l’uomo politico A offre promesse B in cambio di voti C. Questo schema, subisce una prima deviazione, quando scompare il termine medio B. La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso A per ottenere voti C. Votatemi per quello che sono. In questo modo la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare invece ciò che è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto i quali dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività. Invece, ognuno ha i suoi dati, che naturalmente gli danno ragione. L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andarsene su e giù, come conviene. La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come un supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse, per una volta, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostra campagne elettorali.
Più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali.
Noi, cittadini-elettori, non dovremmo forse pretendere qualcosa di meglio?

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